sabato 31 marzo 2018

IO, LA CAPE EPIC E LA FRONT

Gli occhi di Elema. Gli occhi rossi di Elema in aeroporto, mentre avviene il distacco. Gli occhi rossi di Elema mentre mi abbraccia rivedendomi dopo due settimane.
Il sostegno suo continuo, mai un cedimento, un'incertezza. Gli amici a scrivermi ogni mattina, all'alba, e a chiedere di me sempre e comunque. Nico che mi incitava all'alba delle quattro italiane ogni giorno. Mia figlia Michela che si preoccupava per me.
Le tante persone sul web a commentare i racconti e i video quotidiani delle giornate di gara.
Il gentile interessamento continuo alla mia salute di Paolo, paziente.



Queste poche cose, queste cose più del Camp immenso, dell'organizzazione colossale, del pubblico ovunque ad applaudire ed incitare, dei 1400 biker in gara, dell'elicottero che ti segue là in alto, dei fotografi, dei Pro star della mountain bike, ecco mi hanno fatto capire ogni momento cosa stavo vivendo. L'evento con la E maiuscola, il sogno di ogni soggetto che abbia mai amato andare a far correre le ruote su qualche sentiero, la Cape Epic.
Me ne sono resto conto lentamente, come una corretta e sana presa di coscienza giorno per giorno, di cosa stavo vivendo. Nonostante i problemi, e non pochi, che il mio fisico ha portato senza alcuna pietà a galla come una inesorabile, lenta tortura.




Oggi posso dirlo: correre la Cape Epic, The Untamed African MTB Race, è l'arrivo, il punto a cui potevo arrivare e volevo arrivare. Otto incredibili giorni insieme ai professionisti di questo adorato sport, a sentirmi io stesso il pro che non sono, a viverlo come se lo fossi il pro, grazie agli sforzi di Alessandro e alla generosità dello sponsor D'Orsogna. Un'auto 4x4 per noi, il lusso a me sconosciuto di dormire in un comodo letto in appartamenti belli e puliti, una persona a seguirci e portarci ovunque della squisitezza di Paolo. Un imprenditore, appunto Valerio D'Orsogna, capace di arrivare a tutto questo per noi e che di cuore ringrazio.
Una avventura oltre le mie attese, le mie necessità, le mie richieste.

Ed io, 52 primavere sulle spalle da compiere fra un mesetto, a spremere quel che resta di un fisico provato da 25 stagioni di gare e da fratture ovunque, che mi ha presentato il conto a giorni alterni, facendomi passare dalla commozione ed esaltazione del sentirmi forte come non mai, allo stremo delle crisi di fatica più nere, bocca spalancata a cercare ossigeno e ventre gonfio a dirmi basta.





La Epic, come si dice giù in Sudafrica, è una corsa vera. La immaginavo più commerciale prima di partire, solo dedicata ai professionisti, torno a casa colpito dalla sua bellezza. Tappe lunghe e fantastiche, così tanto singletrack sia a salire che a scendere da farti sognare un metro di asfalto, panorami che non si possono descrivere nella loro infinita bellezza, l'Africa migliore, una organizzazione per me perfetta, a livelli prima mai visti. Siccome devo trovarle un difetto, potrei dire che l'unica cosa che manca è il viaggio. Solo tre sedi tappa, a girare sulle montagne e colline intorno, per cui prevale l'aspetto della corsa su quello dell'avventura. Una sottigliezza, cui nemmeno pensi mentre fai correre veloce la Niner, gli occhi concentrati ed infuriati a prendere la traiettoria migliore sugli infiniti snake, i sentieri dei bike park sparsi ovunque nel Western Cape.
Ho spremuto ogni energia che possedevo della mia piccola figura di amatore. Non preparato a dovere e segnato da un inverno impossibile qui dove vivo, a cercare la forma sugli sci di fondo o pedalando nella neve e a temperature perennemente sotto lo zero, ho fatto anche più di quanto avrei immaginato. Tutto dipendeva dalla mia anca malconcia, da quel femore rotto in più pezzi che mi ha lasciato una gamba estroversa. Lavorano troppo i muscoli della fascia laterale, si scaricano sui miei poveri lombari e il male tremendo mi toglie le forze. Se non succede spingo come non mai.
Ho imprecato, pianto ed urlato per questo maledetto mal di schiena, ma poi ho pensato: quanti nelle mie condizioni sono arrivati a correre una Epic, quanta fortuna ho avuto io? Infinita, Fabri, infinita.




Ho corso la Cape Epic con la front, anzi no con la mia Niner. Quasi nessuno ne ha avuto il coraggio quest'anno, quasi tutti non capiscono la meraviglia di farlo. Potrei passare ore a spiegare cosa si prova a spingerla forte o a lasciarla correre nei trail flow e pieni di paraboliche di queste tappe, ma tanto non potreste capire. Ci vogliono le palle, e il cuore, e nulla mi toglie l'orgoglio di averlo fatto.

I momenti che non potrò mai dimenticare:

La partenza del prologo, i 130 battiti da fermo, fermo sul palco ad attendere il nostro via, davanti ai miei occhi una striscia di prato e gente ovunque, le fauci secche, le mani che tremano, la liberazione da tutto dopo le prime due pedalate, finalmente libero, leggero, partito.





L'arrivo del terzo giorno, dopo una tappa troppo bella e corsa troppo bene, come non mi sentivo da tempo, centoundici km a tirare Alessandro e ad aumentare gradatamente il ritmo, l'emozione che mi esplode dentro dopo il traguardo mentre parlo con Paolo e battendomi la mano sul petto urlo "questa tappa è per te Andrea".



L'unica salita asfaltata, lunga, regolare, in una valle incantata dopo quasi cinque ore di corsa, insieme a una coppia franco/svizzera a ridere e pedalare leggeri, e recuperare posizioni senza apparente fatica, felici solo di essere lì vivi a vivere quel momento.

Le spinte di Alessandro negli ultimi due giorni in crisi, le sue urla di incitamento, la mia schiena bloccata, la bocca spalancata, la testa che gira, la sensazione di svenimento, la voglia infinita di dire basta, mi fermo, adesso è troppo, voglio tornare a casa. Ma anche quelle forze trovate non so dove, per l'ennesima salita, l'ennesimo sforzo, l'ennesimo sentiero in cui tuffarsi.



I single track, gli snake, ovunque, infiniti, bellissimi, tecnici il giusto, flow il giusto, i ponti sospesi, le passerelle in legno, le paraboliche, la sabbia, le pietre, i miei occhi e la mia Niner, io con la front che prendo le full davanti, che non gli do respiro, ossessione per tutti quelli che avevo vicino e godimento senza fine per me, il non sentirmi mai minore, inadeguato, ma anzi pieno e completo.






Gli altri, venuti da ogni parte del mondo, altre lingue altre usanze altre abitudini ma biker come te, la commistione delle lingue e delle razze, il capirne la nazionalità dalla bandierina impressa sul numero di gara, lo scambiarsi due parole "Well done, good job", le pacche sulle spalle, il sentirsi parte di qualcosa di immenso, completo.



Dopo otto giorni, 660 km di pietre, sabbia, sentieri e montagne, dopo 13500 metri scalati che non rendono per nulla l'idea dello sforzo in questo incredibile ambiente, dopo 35 ore a gioire, ridere, spingere ed imprecare sui pedali, dopo il sole, il vento, le nuvole, la pioggia, dopo avere mangiato troppo come sempre senza riuscire a recuperare le calorie disperse in gara, passando sotto lo striscione di arrivo che mi decretava Finisher della più importante corsa al mondo, sono rimasto assolutamente calmo. Seduto un attimo a riflettere, ho sentito chiudersi il cerchio. Dopo due Rally di Sardegna, un Rally di Romagna, due Transalp, una Titan Desert, una Transpyr, due Alta Via Stage Race, un Roc Trophy, una Joberg2C, una Iron Bike in otto anni di cui uno, il 2012, passato a rimettere insieme la mia povera gamba distrutta alla Maxei, potevo appendere l'ultima maglia Finisher che volevo, quella della Cape Epic. Poco meno di 100 tappe corse, sempre andando al massimo delle mie forze, mai un ritiro, un arrendermi, un dagliela su.

Mi sono seduto un attimo e mi sono sentito bene, pieno, completo. E ho capito che non avevo alcun altro desiderio al mondo che quello di tornare a casa.


BikerForEver






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