Guardo questa foto. La barba ormai bianca. Il volto stanco e tirato. Le occhiaie, profonde, scavate dalla fatica del mio primo Trail, sotto una pioggia battente, nella nebbia, nel fango. I capelli resi ancora più radi dall'acqua presa per ore. Capelli senza colore, nè scuri nè veramente bianchi.
Guardo questa foto. Vedo il mio corpo ancora magro, teso nello sforzo di una salita ripida, rocciosa e viscida. Vedo le mie mani, nel gesto inusuale forse tra chi corre a piedi, ma classico di chi pratica da una vita lo sci di fondo, della spinta a mano chiusa che lentamente si apre a rilasciare il bastone dietro alla schiena.
Guardo questa foto. E vedo solo i miei occhi, e quegli occhi li conosco, li ricordo, io fin che avrò quegli occhi non ho mai mollato, e non mollerò mai.
Guardo i miei vestiti, così inusuali, lo zaino con le borracce, i bastoni, i pantaloni da trekking, il k-way e i guanti da bici, la fascia del Sudafrica, di quella Joberg che non posso scordare, in testa come ogni volta che voglio salire, quel numero altissimo, 2609, appeso li davanti, per controllarne l'altimetria.
Sono passati 10 giorni dal mio primo Ultra Trail del Lago d'Orta, e mi sale ancora un nodo in gola a guardare questa foto. Sei ore e ventiquattro minuti di emozione profonda, sperso in mezzo a centinaia di persone infinitamente più esperte di me, meglio vestite di me, con meno mal di gambe di me, eppure sereno, convinto, preciso, senza pensieri se non porre un passo dopo l'altro.
Assolutamente me. Solamente grazie a chi mi ha accompagnato in questo nuovo mondo.
BikerForEver
mercoledì 30 ottobre 2019
mercoledì 2 ottobre 2019
BIVACCHI E BASTONI
Il respiro è affannato, la pietraia infinita, la nebbia attorno avvolge ogni cosa, nessun rumore, nessun colore. Freddo umido che non sento più, i bastoni non fanno presa sulle rocce, uso le mani per tirarmi su e continuare a salire. Pietraie, creste, canalini, sfaciume, la montagna che più amo, quella oltre la vita, sopra ogni cosa, dove è solo pietra e ghiacci.
Appare una macchia grigia, appare una macchia rossa. A volte gialla, più raramente è di pietra e legno. Io li amo di latta, colorata o no che sia. I tiranti di ferro tesi a proteggerli dalle tempeste di vento e neve, la porta chiusa, mai un minimo segno di rifiuti, una pala per la neve appesa a fianco della porta. Che apro rispettosamente, a scoprire questo micro mondo fatto di legno che odora forte, coperte vecchie, una tanica d'acqua, qualche busta di thé, delle scritte, una targa, delle vecchie brande con spesse coperte di lana. Sei, otto posti di norma, a volte anche solo quattro. Una targa, una foto dell'alpinista cui è intitolato, null'altro.
Mentre aspetto Nico, che si era fermato un attimo a respirare mentre io ero preda della foga del salire, appoggiata la schiena alla macchia rossa che chiamano bivacco Borghi, la nebbia si dirada e sotto il blu improvviso del cielo appaiono i ghiacci aggrappati alle rocce. E io, che sono solo e ancora affannato, vengo preso forte dall'euforia, vado di qua e di la, non riesco a stare fermo, come fossi un bambino che vede il suo primo parco giochi.
Sento forte questa esigenza di salire, che sia la conquista del colle, del bivacco o della cima. Poco importa. Quello che conta è salire, affannarmi, usare mani e bastoni, guardare oltre, guardare dentro, guardare attorno. Che sia montagna, meglio se alta, altissima. Voglio l'odore della quota, ne voglio il sapore mentre mordo carne secca.
Lontane le ruote, lontano l'agonismo, le sfide, i fuori soglia, il mio mondo avuto per anni. Io, i miei bastoni, le scarpette, i ramponi nello zainetto con poche altre cose, meglio se con Nico, Ele, ma anche solo, quel che conta è salire più forte che posso e vedere oltre. Per scendere e soffrire i dolori del corpo e della mente c'è sempre tempo.
BikerForEver
Appare una macchia grigia, appare una macchia rossa. A volte gialla, più raramente è di pietra e legno. Io li amo di latta, colorata o no che sia. I tiranti di ferro tesi a proteggerli dalle tempeste di vento e neve, la porta chiusa, mai un minimo segno di rifiuti, una pala per la neve appesa a fianco della porta. Che apro rispettosamente, a scoprire questo micro mondo fatto di legno che odora forte, coperte vecchie, una tanica d'acqua, qualche busta di thé, delle scritte, una targa, delle vecchie brande con spesse coperte di lana. Sei, otto posti di norma, a volte anche solo quattro. Una targa, una foto dell'alpinista cui è intitolato, null'altro.
Mentre aspetto Nico, che si era fermato un attimo a respirare mentre io ero preda della foga del salire, appoggiata la schiena alla macchia rossa che chiamano bivacco Borghi, la nebbia si dirada e sotto il blu improvviso del cielo appaiono i ghiacci aggrappati alle rocce. E io, che sono solo e ancora affannato, vengo preso forte dall'euforia, vado di qua e di la, non riesco a stare fermo, come fossi un bambino che vede il suo primo parco giochi.
Sento forte questa esigenza di salire, che sia la conquista del colle, del bivacco o della cima. Poco importa. Quello che conta è salire, affannarmi, usare mani e bastoni, guardare oltre, guardare dentro, guardare attorno. Che sia montagna, meglio se alta, altissima. Voglio l'odore della quota, ne voglio il sapore mentre mordo carne secca.
Lontane le ruote, lontano l'agonismo, le sfide, i fuori soglia, il mio mondo avuto per anni. Io, i miei bastoni, le scarpette, i ramponi nello zainetto con poche altre cose, meglio se con Nico, Ele, ma anche solo, quel che conta è salire più forte che posso e vedere oltre. Per scendere e soffrire i dolori del corpo e della mente c'è sempre tempo.
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