Ho quarantanove anni quando su ai Cappuccini a Torino facciamo le foto con Marco per la copertina del quinto, da me trascinato in questa storia dello scrivere e pubblicare. Ho cercato di lasciare a lui le parti tecniche per tenermi il racconto. E' il mio fine, il mio desiderio di arrivo. Quella foto che poi finisce sulla copertina di un libro a mio avviso bellissimo e gestito come peggio si poteva dall'editore nella sua poca, pochissima distribuzione, la trovo da subito vera e giusta.
Adesso ne ho cinquantaquattro. Anzi mi mancano meno di tre settimane, ma io uso invecchiarmi ogni Capodanno, da sempre. Fuori piove, finalmente, per cui sono chiuso in casa come di rado avviene. Metto in ordine, sistemo cose, e mi torna in mente di quanto ho amato scrivere in questi anni. Che agli altri piaccia, che altri leggano, è del tutto irrilevante. Non voglio nè cerco consenso, nè amo la gente. Mi vanto della mia antipatia e asocialità, e qui oggi ce ne sarebbero da scrivere di cose. Che poi sono dette e ridette e diventano banali, per cui meglio non farlo.
Esce fuori il libro scritto per anni e terminato qui nella nostra casa di campagna, ormai forse un anno fa. Lì in una busta, un solo lettore, lei, mai la ricerca di uno che lo pubblichi, mai la proposta a qualcuno. E' mio, forse gelosamente mio. E magari piace solo a me, che ne so cosa vogliono leggere gli altri, pochi, che leggono.
Magari un giorno lo metto sul web, magari un giorno lo brucio, magari crepo e rimane lì pieno di polvere. Magari un giorno muovo il culo e vado proporlo. No, so già che tanto non lo faccio.
Capitolo 4: ""...omissis...Continuo a chiedere morfina tutta la notte, sono solo e piango.
Sono tre giorni che mi
hanno operato, che sono rinato. Conosco la mia fisioterapista, finalmente. “Dai
mettiti seduto”. La guardo pensando che è scema. “Non ci penso neanche”. “Sono
tre giorni che ti hanno operato e non ti sei ancora alzato, quando pensi di
farlo?” Non resisto “Ma sei scema o cosa?” Sono SOLO tre giorni”.
Mi tira su, mi gira e
accompagna le mie gambe giù dal letto. Le accompagna delicatamente piegandomi
le ginocchia lentamente, ho solo smorfie di dolore e dico solo “Piano, fai
piano!”. Ormai il mio mondo era sdraiato, seduto tutto appare diverso, strano,
mi sento in altissimo, ho le vertigini, mi viene da vomitare, svengo. Credo lei
mi prenda al volo, mi risveglio che sono nuovamente sdraiato. Tra me e me penso,
ma cosa pretende questa qua da uno con un femore a pezzi, pieno di morfina, con
una emorragia interna che quasi lo ha ucciso? La odio.
“Ciao oggi facciamo due
passi”. Un incubo, la mia fisioterapista è un incubo. Mi danno due stampelle
appena mi alzo svengo, di nuovo mi risveglio sdraiato nel letto.
Luigi mi tiene
compagnia, va e viene dal balcone dove fuma in continuazione, anche sua moglie
mi parla, ma mi sento solo. Ho sempre in mente un verso di De André: quando si
muore, si muore soli.
La mancanza di sonno
continuo è durissima, le notti non passano, mai e poi mai.
“Dai, oggi facciamo un
giro per il reparto”. Ormai sono rassegnato alle sue torture. Mi mettono su una
sedia a rotelle, la gamba tesa ed orizzontale, seduto ho già il vomito che mi
sale. Mi spingono in corridoio. “Dai alzati e va”. Mi alzo, le braccia tremano,
tutto gira, sposto avanti una stampella cerco di fare un piccolo passo, svengo.
Mi risveglio questa volta sulla sedia a rotelle. “Dai ci riproviamo ancora, su
alzati e vai”. Accanto ho due ragazzi muscolati pronti a prendermi. Due passi e
svengo. Svengo cinque volte e cinque volte mi fa ricominciare. La odio
profondamente.
Molte telefonate, molte
firme, ma alla fine una casa di cura vicino a casa mi ha preso. Trenta minuti
di distanza, e ne parlano anche bene. I barellieri staccano i freni del letto,
e partiamo. Guardo tutto, ogni dettaglio, ogni piccola cosa: il tavolino al mio
fianco, il tavolo spoglio, la seggiolina in ferro. La piccola TV lcd, le mie
poche cose. Guardo i muri, le pareti, il soffitto: nulla deve essere
dimenticato, nulla e per sempre. Ogni minuto, ogni insignificante gesto non va
dimenticato, ogni lacrima versata, ogni urlo, ogni parola. Gli occhi degli
infermieri e delle infermiere, l’accento ligure, le parole di Luigi che già è
tornato a casa, nulla, che io trovi la forza di non dimenticare.
Usciamo dalla porta
scorrevole del Pronto Soccorso, c’è il sole e fa caldo: vedo l’azzurro del
cielo e il verde di un grande pino marittimo sopra di me. Sento l’odore e il
sapore dell’aria, sento i rumori della vita, le persone, le auto, gli uccelli
sopra, il mondo.
Stringo forte il
braccio della barelliera, e lei capisce. Si ferma un istante prima di chiudermi
in ambulanza, mentre piango a singhiozzi.""
BikerForEver
Nessun commento:
Posta un commento