lunedì 11 maggio 2015

RIVEROSSE FOR EVER

Esiste un territorio, meglio dire esiste un mondo, che per me ha un sapore speciale. E forse non solo per me.
Se ci passi e non ti fermi, osservi, annusi, se non ti chini a toccarne la terra arida che sa di sabbia e di pietre, non te ne accorgi. Colline come tante altre, in fondo è pieno di bei posti.
Ma se ti fermi ed entri in questi boschi, in questa zona che da Masserano passa per Brusnengo, Roasio, Lozzolo per arrivare fino a Gattinara, piccoli paesi un pò fuori dal tempo dove la provincia di Vercelli si unisce a quella di Biella, può capitare che rimani stupito. E se poi ci entri con una Mtb, o magari con delle scarpette per il trail, è probabile che tu possa cominciare ad annusare.

Quando essere un biker era privilegio di pochi, all'inizio degli anni '90, quando i nomi che sognavi erano americanissimi, Gary Fischer, Yeti, Turner, Manitou, Girwin e altri, io e Albi andavamo giovani e carichi come mai, ad Arborio dove persone speciali ci caricavano su un furgone e ci portavano a correre in questi boschi E ci insegnavano i sentieri, e il dialetto meraviglioso di queste terre. Era il tempo dei Cantieri Gallo, e di Marco in particolare.




Poi cresci e ti alleni un pò di più, ma non smetti di correre appena puoi in quei boschi, su quella sabbia piena di pietre dove stare in equilibrio su due ruote grasse è un arte. E vengono gli anni dello Zoccolo, dei Salva, Steve, Gibo, Sopetti, e gli altri. E' qui che impari a domare la notte, che scopri la voglia di 24 ore e di Finale, che inizi a creare i nomi e le leggende.

Roasio. Non Riverosse, questo è il nome di oggi, Per chi come me, e siamo in pochi ed eletti, qua ci corre da oltre vent'anni, questo posto è Roasio, da sempre. E le salite hanno i nomi della leggenda, Fra' Dolcino, Le Dune, La Madre di tutte le salite, La Madre delle discese, Il Galletto Alto e quello Basso, Mazzucco, la Fraschea, e tanti altri. Posti che mi hanno visto prima crescere e poi invecchiare, e come me gli altri.

Nello scorrere del tempo, nel trascorrere più di venti inverni su queste terre, ho imparato a guidare, a non avere paura delle discese più assurde, a scalare come una capra strade che si fa fatica a piedi, ho imparato a vedere di notte e a sopportare il freddo, ho imparato a conoscere ogni pietra, ogni albero, ogni roccia, e a farmele amiche.

Poi ieri è arrivato il giorno che sognavi da sempre, ed è arrivato in modo speciale. Sono arrivato a Roasio, che è come la mia seconda casa, ed era pieno di biker ovunque. Il sole era caldo e l'aria sapeva di fiori. Erano lì per correre, per correre sui miei sentieri. Lo dico senza presunzione, non so chi di loro ci fosse su questa sabbia che so, nel 1993. Per questo li sento miei.
Ed è stata la gioia di avere con me Albi come ai tempi eroici delle prime volte.
Ed è stata la gioia di poter fare vedere a tutti cosa sono questi boschi e questi sentieri.
Ed è stata la gioia di avere accanto un mare di amici, di fermarmi a salutare, ridere, scherzare con qualcuno ogni due passi che facevo.
Ed è stata la gioia di avere i miei figli maggiori con me, Michela e Francesco, e di sentirli urlare per me mentre ebbro di felicità scendevo dalle Dune, quella che oggi chiamiamo PS4.

E' stato compiere 49 anni in un modo speciale, credo unico ed irripetibile. E forse per questo ancora più bello.

Tutti noi corriamo per un team, una squadra. Io corro da tre anni per il Riverosse, ma ci correvo anche prima che esistessero, ed in fondo lo sappiamo tutti, ci correrò per sempre.

BikerForEver.











martedì 5 maggio 2015

IL CORPO E L'ANIMA DEL DESERTO

Ci sono cose che è facile raccontare. Ci sono cose di cui è facile fare un resoconto. Poi ce ne sono altre che sono un fiume in piena di emozioni, e non sai come fare. Perchè appena ti siedi a scrivere, ti sale da dentro e ti invade, che ti perdi con la testa nel ricordo e non riesci a scrivere.

Partecipare a una grande corsa a tappe in mountain-bike è una questione molto diversa che correre le gare di un giorno. Anzi non c'è quasi alcuna parentela. Correre una grande corsa a tappe in un posto assoluto, estremo, esotico, come il deserto sa essere ancora un'altra questione.

In fondo se uno la guarda da casa, la Titan Desert non appare una corsa troppo impegnativa. Le tappe sempre sui 100 chilometri, i dislivelli sempre modesti, le medie di percorrenza alquanto alte per essere offroad. E tu che hai scalato le Dolomiti, le Alpi, i Pirenei e andar dicendo, parti per il Marocco sereno, convinto che sarà una sfida facile da domare.
Poi conosci l'incubo e torni a casa diverso, cambiato. Perchè ti scava dentro, ti fa conoscere la paura e la gioia, l'emozione e la rassegnazione, e anche questa volta devi ammettere di aver capito qualcosa di nuovo.

Per la mia esperienza, piccola per carità ma ormai ventennale, il deserto è il posto più assurdo dove andare a correre in Mtb. Me lo sono chiesto ogni giorno: ma che senso ha correre in questo inferno. L'ho capito dopo, ma resta il fatto: è un posto off limit, sei sempre e solamente sul bordo del baratro.

Perchè fa caldo, un caldo che non respiri. La tappa più fresca c'erano 37 gradi, la peggiore 44.
Perchè c'è il vento, bollente e fortissimo, implacabile e sempre contro. E ti devasta spingere per ore senza poter mai avere un sollievo.
Perchè anche se è tutto piatto, il fondo è devastante: pietre, tole ondulée, infinite buche piene di sabbia dove ti pianti e devi rilanciarti, fuoripista nel nulla, oued e chott da attraversare che ti manca l'aria. E le dune, immense, che poi in fondo sono la cosa meno impegnativa di tutte.
Perchè dormi in tenda e hai la polvere ovunque. Non puoi liberartene mai, le docce hanno un filo di acqua e sei sempre sporco e con le piaghe nel culo.
Perchè devi orientarti fuori pista, e nel nulla del deserto di pietre o di sabbia è difficile.
Perchè ai ristori c'è solo acqua e powerade, quindi devi alimentarti da solo, e i crolli ipoglicemici sono continui.
Perchè il cibo è sempre uguale, buono ma uguale, e tu vivi con la nausea e al limite della dissenteria.

La Titan Desert del decennale, sono state sei tappe. Ho in mente ogni istante di ognuna di esse, scavato come la roccia dal vento nei miei occhi.
E' stato il primo giorno, in montagna, 8 gradi la mattina alla partenza e 37 all'arrivo, oltre sette ore con la felicità negli occhi, era la mia giornata e me la sono presa alla grande. Panorami infiniti di montagne di sole rocce, discese su pietraie senza fine e scalate controvento devastanti.
E' stato il secondo giorno che sembrava tutta in discesa, ed invece ho conosciuto la prima crisi di disidratazione, arrivando alla fine strisciando per miracolo dopo 60 chilometri controvento tra pietre e sabbia a impazzire.
E' stato il terzo giorno della seconda tappa di montagna, con Loca a non mollare il gruppo dei primi 100 per finire tra i dromedari che corrono liberi al pascolo. La gioia e la follia della tappa marathon, con addosso sacco a pelo, materassino e ricambio per la tappa seguente, perchè all'arrivo per regolamento non ti portano nulla per due giorni, e devi sapere fare tutto e dormire in un tendone insieme ad altri 600 biker.
E' stato il quarto giorno, quello dove mi perdo nel nulla, non meno di due ore senza sapere dove sono con Ahmed, giovane e pimpante biker marocchino, con Loca che ci raggiunge perso nel nulla come noi due, senza pista e in una valle di sole pietre, e la crisi di quando troviamo la strada e io perdo ogni energia.
E' stato il quinto giorno, quello della tappa di pura navigazione, solo 4 coordinate da mettere nel GPS per fare oltre 100 chilometri, poi le dune del grande Erg da attraversare e il nulla per ore, biker come formiche impazzite ad ogni angolo dell'orizzonte, e la crisi in totale ipoglicemia e disidratazione degli ultimi 30 chilometri di buche e pietre controvento, con 44 gradi e già sei ore a tutta nelle gambe.
E' stato il sesto giorno, quello della felicità, della tappa di sole tre ore, del "chissenefregadellaclassifica", del "vogliosoloarrivare", degli abbracci, delle risa, delle lacrime di gioia, del Pier sul podio dei master, delle 1000 persone a una cena che sembrava la festa del Tour de France.

Ma la Titan Desert è stata molto altro.
Siamo stati innanzitutto noi sette: Pier, David, Ricky, Simone, Loca, Leo ed io. Uniti in tutto, a tutta in gara come ognuno poteva.
E' stata la serata a Marrakesh e nella Jema El Fna, e per le vie della Medina.
E' stata il viaggio attraverso Ouarzazate fino a Bouleamne Dades da cui partiva la gara, i primi colori dell'Africa negli occhi, e il pranzo di Tajine in montagna.
E' stata i riposi in tenda, i pranzi e le cene al campo, le docce, le sveglie all'alba, i camel back da riempire e le piaghe da curare.
E' stata i panorami mozzafiato, l'emozione del deserto, i bambini sulle piste con le mani tese e salutare, a piedi nudi e con addosso due stracci la dove tu faticavi a stare in sella.
E' stata il viaggio di ritorno verso Fez, l'arrivo del verde e delle foreste, il pranzo in un posto senza tempo e senza luogo con la tajine migliore del mondo e gli spiedini fatti tagliando l'agnello davanti ai tuoi occhi.
E' stata la Medina di Fez, il perdersi nel Marocco e i suoi mille odori, sapori, rumori. La povertà che ti conquista, che ti fa sentire migliore, che ti fa capire tutto in meno di un istante.
E' stata il Muezzin e le sue preghiere urlate.

E' stata gli occhi di ognuno di noi sette, che mostravano come l'Africa fosse entrata dentro. Possiamo negarlo quanto vogliamo, ma una parte dell'anima è rimasta là e partiremmo domattina per ritrovarla.

E' stata entrare a casa alle 2 di notte in silenzio, e ritrovare il calore della famiglia e del proprio letto.

Ho corso ogni istante per sei giorni con altri 612 biker giurando che sarebbe stata l'ultima volta, che ormai sono vecchio e il mio fisico non può più reggere questo massacro. Dall'istante stesso in cui ho finito, come oggi che scrivo, non vedo l'ora di ripartire.


BikerForEver